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Nato per riparare i danni sulla produzione di cellule del sangue causati dall’esposizione alle radiazioni, si è evoluto diventando una terapia personalizzata.
Il trapianto di midollo osseo ha poco più di sessant’anni, ma non li dimostra, almeno per due ragioni. La prima è che oggi continua a rappresentare una soluzione terapeutica indispensabile per la cura di alcune malattie, soprattutto oncologiche, prime fra tutte la leucemia acuta, in particolare la mieloide dell’adulto e la linfoblastica nel bambino. E si è addirittura trasformato in un trattamento «personalizzato», da adattare caso per caso. La seconda è che si è talmente evoluto da dare origine ad alcuni «spin-off», i cosiddetti living drug o farmaci viventi: sono globuli bianchi (linfociti), ingegnerizzati in laboratorio e poi trapiantati nell’uomo, capaci di riconoscere cellule tumorali di leucemie e linfomi (si chiamano Car-T cell).
L’ultimo farmaco
L’ultimo arrivato, da poco autorizzato in Italia, è un preparato a base di linfociti Tk, che si associa al classico trapianto di midollo in malati con leucemia mieloide acuta ad alto rischio. La storia del trapianto di midollo la racconta in un articolo da poco comparso su Science Translational Medicine un gruppo di ricercatori internazionali fra cui Chiara Bonini, vicedirettore della Divisione di Immunologia, trapianti e malattie infettive dell’Irccs, Istituto scientifico di ricovero e cura, Ospedale San Raffaele di Milano.
Le tappe
Vale allora la pena di ripercorrerne le tappe, a partire dagli Anni Cinquanta fino ai giorni nostri. «All’inizio è stato utilizzato per curare i danni al midollo provocati da esposizione a radiazioni in incidenti sul lavoro o come conseguenza delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: l’obiettivo era quello di ricostruire il midollo distrutto (nei casi di aplasia, ndr) o di contrastare le forme di leucemia che ne derivavano», commenta Chiara Bonini. Hanno cominciato i francesi, guidati da George Mathé (che ha eseguito trapianti nel 1959 per curare alcuni operati iugoslavi esposti a radiazioni sul lavoro) e gli americani, che invece si sono concentrati sulla cura delle leucemie: in particolare lo ha fatto Edward Donnall Thomas che, nel 1990, ha vinto il premio Nobel per la medicina, insieme a Joseph Murray, proprio «per le scoperte riguardanti il trapianto di cellule e organi». «Ma all’epoca si trattavano solo persone al di sotto dei 40 anni — precisa Bonini — e con un midollo prelevato da un donatore identico (geneticamente parlando, ndr), di solito un familiare, per evitare il rigetto. Altrimenti si cercavano cellule geneticamente compatibili nelle banche di midollo». Poi le cose sono andate avanti. E si è arrivati, grazie anche allo sviluppo tecnologico che ha permesso di riconoscere meglio le cellule midollari, al trapianto cosiddetto aploidentico, cioè compatibile con il ricevente soltanto per la metà. E questo ha allargato tantissimo la possibilità per i malati che non trovavano un donatore «identico» (sono circa il 60 per cento) di accedere alla cura potendo contare su fratelli, sorelle, genitori e figli che, in parte, condividono un patrimonio genetico simile. L’idea, all’inizio degli anni Novanta, è stata di un gruppo di ematologi di Perugia, che hanno cominciato a distinguere e a «dosare» le varie cellule del donatore così da somministrarle al ricevente in modo più raffinato, con l’obiettivo di evitare il rigetto e di ottimizzare la loro efficacia, in particolare nel trattamento delle leucemie . Occorre precisare, infatti, che nel midollo di donatore sono presenti due tipi di cellule: le staminali ematopoietiche, capaci di rigenerare l’intero midollo del ricevente e i linfociti T, cellule del sistema immunitario che hanno il pregio di saper riconoscere le cellule malate e di distruggerle, ma hanno il difetto di aggredire a volte anche i tessuti sani (si chiama graft versus host disease, in sigla Gvhd, la malattia del trapianto contro l’ospite).
Il problema del rigetto
«Il problema del rigetto è stato risolto con la somministrazione di megadosi di cellule staminali del midollo in modo che attecchiscano rapidamente. Queste staminali vengono prelevate dal sangue periferico del donatore, dopo averne stimolato la mobilizzazione con specifici farmaci — precisa Bonini — Per contrastare il rischio di Gvhd, invece, la soluzione trovata è quella della modulazione della presenza di linfociti T da somministrare al ricevente». Si comincia così a parlare di «personalizzazione» del trapianto. Personalizzazione che riguarda anche il condizionamento e cioè le modalità attraverso le quali si fa piazza pulita del midollo malato del ricevente prima del trapianto, che lo andrà a ripopolare con cellule sane. E riguarda non solo la quantità, ma anche il tipo di linfociti T da somministrare. Un esempio: se il paziente trapiantato presenta una concomitante infezione virale ecco che si possono infondere linfociti specifici capaci di combattere quel particolare virus (sempre provenienti dal donatore aploidentico). Grazie a tutto questo, oggi la possibilità di trapianto si è allargata anche a pazienti avanti con gli anni e con malattie concomitanti. In questa evoluzione dal trapianto alle terapie cellulari si è un po’ perso per strada, come fonte di cellule da trapiantare, il sangue del cordone ombelicale, di cui è parlato tanto negli anni scorsi. «Ci sono due ragioni — commenta Bonini —. Una è legata ai numeri: le quantità sono poche e bastano per i bambini. L’altra è che non contiene i linfociti T. Ma è probabile che venga rivalutato in futuro».
fonte: www.corriere.it